Secondo giorno. Pomeriggio nella storia della rappresentazione.

 Nel pomeriggio visita a Sua Maestà il Louvre. Rimando all'apposito post le informazioni pratiche, tipo evitare di farsi prendere dallo sconforto in una coda chilometrica che attraversa i giardini des Tuileries e che se fosse un tapis roulant potrebbe condurre comodamente all'aeroporto. Qui riporto invece un possibile itinerario base tra le sale, per non smarrirsi nella sindrome di Stendhal e tentare di tenere sollevata quanto basta l'attenzione di un adolescente. 

E' per forza una proposta ricca di assenze illustri; d'altra parte, sfido a tentare qualsiasi percorso al Louvre che non preveda delle perdite rilevanti. E' la strada minima, fatta di "mai più senza", di "questo l'hai studiato a scuola" e di " piace a me".

All'ingresso, inforcare senza tentennamenti le scale per l'ala Sully, al piano terra e recarsi nella stanza 345, al cospetto della Venere di Milo (150-125 a.C.). Raccogliersi in un ringraziamento per quell'appassionato d'arte che nel 1820 passeggiava per l'isola di Milo proprio mentre un contadino, contrariato dal ritrovamento di inutile marmo nella terra che stava preparando per il trapianto delle rape, si accingeva a spostare il ritrovato dall'orto e sotterrarlo nuovamente. Seguirono aspre trattative con gli ottomani per accaparrarsela, perché dopo il Congresso di Vienna, ai francesi non andavano giù le restituzioni pattuite e anche il fatto che gli inglesi si fossero beccati bei pezzi di Partenone. Che poi probabilmente non è Venere, è la moglie di Poseidone, ma già allora c'erano esperti di marketing a scegliere i nomi di maggior richiamo. Ed è uno splendore, tanto da far da modello a numerosissime opere successive.
Inoltrarsi poi nella adiacente ala Denon, primo piano, in cima alla scalinata, sala 703, per guardare la Vittoria di Samotracia (190 a.C.), da cui la più prosaica Nike attuale ha preso la forma (vista di lato) per il celeberrimo simbolo accentato. Dea figlia di titano e ninfa, venerata come personificazione della Vittoria, e scolpita per celebrare la vittoria contro i siriani, per la sommità di un tempio. E' stata portata in Francia in frammenti, e lì ricostruita, accorgendosi solo in seguito che la sezione di barca sottostante era parte della stessa opera. 
Lanciando casuali sguardi ammirati in ogni dove, e passando sotto fenomenali ieratiche e beffarde Cariatidi, ostentare sicumera fino alla stanza 706, in cui finalmente si può prendere fiato ammirando gli affreschi del Botticelli (1486), che nel 1873 sono stati scoperti sotto spessi strati di calce (la smania di ridipingere casa tocca vette di stupidità assoluta, ma sappiamo tutti lo stress che comporta) in una villa a Firenze. Staccandoli dalla parete ne venne pesantemente rovinata la metà. Il Louvre ne comprò un paio (vedete, alle volte comprano, nonostante le maldicenze sulle scorribande di Napoleone). Il primo raffigura Venere che dona un tessuto ad una sposa, accompagnata dalle tre Grazie. Il secondo invece rappresenta Venere che presenta lo sposo alle sette Arti Liberali (grammatica, aritmetica, dialettica, geometria, musica, retorica, astronomia), decretando l'ennesimo caso di allegro patriarcato nella divisione dei destini. 
E da qui, ovunque si getti lo sguardo, è Rinascimento italiano, splendore e commozione. La stanza 711, con la sua Monna Lisa, pare inevitabile, se non altro per vedere come la pubblicità renda un'opera, pur deliziosa, immensamente più interessante di quelle che la circondano, che avrebbero pari valore e pari bellezza. La Gioconda si vede in alta definizione, come nella foto qui accanto, a meno di non disporsi in placida attesa alle transenne per un fugace sguardo da vicino tra mille selfie (fotografare se stessi con Monna Lisa...interessante indagare sul significato psicanalitico della cosa). Oppure ci si può rivolgere agli strepitosi dipinti con cui condivide la stanza, non ultimo l'eccezionale Nozze di Cana (1563) del Veronese, sottratto da Napoleone nel 1797 (appunto...), nel quale sembra di entrare (casino nel quadro, casino fuori), a creare un unicum umano piuttosto interessante.  
I musicisti in prima fila rappresentano il Veronese stesso, alla viola, Tiziano al violoncello, Tintoretto al Violino, e Jacopo da Bassano al flauto. Un po' come la celeberrima foto di Minà con Muhammad Alì, Marquez, De Niro e Leone. 
Dimostrando una forza d'animo sconsiderata per evitare di soffermarsi a ogni quadro dell'enorme galleria,  dire a se stessi che il corpo potrebbe cedere in ogni momento e tirare dritto fino alla Zattera della Medusa di Gericault (1819), stanza 700, in mezzo alla pittura francese. Gericault vive in pieno romanticismo, quindi, come molti all'epoca, si forma nelle accademie neoclassiche, per poi abbandonarle, sotto la spinta di nuove correnti di pensiero, che questo quadro delinea perfettamente. La nave Medusa naufraga al largo delle coste africane nel 1816. Gli ufficiali trovano la salvezza sulle scialuppe, naturalmente, e il resto dei superstiti su una zattera di fortuna che gli ufficiali tentano di trainare per un certo tempo, ma poi il cavo si spezza (o viene spezzato?). I 151 naufraghi sono costretti a tentare di sopravvivere cibandosi per giorni dei cadaveri dei compagni morti. L'undicesimo giorno passa una nave in lontananza, e il quadro vuole esprimere quel momento, in cui i naufraghi fanno di tutto per farsi notare e salvare, ma non vengono visti. Il tredicesimo giorno verranno poi salvati i soli quindici superstiti. Il dipinto vuole provocare la sofferta partecipazione del pubblico a quel preciso momento storico e umano. Passando attraverso L'incoronazione di Napoleone, recarsi senza meno verso La libertà che guida il popolo di Delacroix (1830), che raffigura le barricate parigine che costrinsero il re alla fuga. 
Scendere ora al piano terra, sempre ala Denon, per ammirare nella stanza 403 gli Schiavi di Michelangelo (1513): lo schiavo morente e quello ribelle. Iniziati per una tomba e poi non utilizzati perché ridimensionata (immagino avessero finito i soldi), restano lunghi anni a casa dell'artista, incompiuti. Michelangelo poi li dona a Roberto Strozzi per ringraziamento dell'ospitalità (a noi al massimo regalano il San Daniele sotto vuoto) e questo se li porta a Lione, dove era stato esiliato. Finiscono per essere regalati al Cardinale Richelieu nel 1632, e in seguito venduti e infine requisiti dal governo rivoluzionario. Dal 1794 sono al Louvre. Poco lontano, Amore e Psiche di Canova (1788-1793), esempio del Neoclassicismo teorizzato dal Winckelmann - armonia e equilibrio, totale dominio sulle passioni, purezza formale. Assenza di turbamento - e qui avrei qualcosa da dire. 
Fin qui eravamo comodi, le opere si snodano ordinatamente senza lunghi spostamenti, ma ora tocca una scarpinata per immergersi nell'ala Richelieu, piano terra, a cercare il Codice di Hammurabi (1760 a.C.), ammirando nel frattempo opere commoventi nella loro magnificenza, di Babilonesi e Persiani, contemporaneamente umane e sovrumane. Per poco il cor non si spaura, perdinci! Tra loro, la creatura più antica del museo, un signore di 9000 anni di nome Ain Ghazal, con grandi piedi, forme grezze come di plastilina di bambini, quasi bidimensionale nella sottigliezza del profilo, ma con un viso che dice che cavolo, siamo tutti qui, e finché ci saremo saremo tutti così.
Ecco, qui ci si potrebbe fermare, ma interviene l'intima passione per la pittura fiamminga, che spinge a salire due piani, sempre nell'ala Richelieu, per scoprire che non solo i numeri di stanza sono stati tutti modificati, senza che la piantina del museo che consegnano all'entrata ne sia stata informata, ma anche che proprio La merlettaia di Vermeer (1669-1670) e l'Usuraio e sua Moglie di Massys (1514) un paio di giorni prima hanno preso il largo, per Abu Dhabi e per Amsterdam, sottraendosi alla vista. 

Tutto, nel corpo non allenato a macinar chilometri, dice "basta, ti prego". Gli occhi pregano "non posso assorbire altra meraviglia". Eppure si viene colti da un fervore fanatico, simile a quello che penso colga alla fine della vita, prendendo atto di non aver visto, vissuto, detto, ascoltato tutto il necessario. E quindi, con la poca lucidità residua, ci si trascina al Pompidou. 
Tre i motivi della scelta scellerata, tutti ripagati: 
- il palazzo di italica inventiva, rovesciato su se stesso a mostrare impudicamente scheletro e organi rivolti all'esterno.
- la salita sulla scala mobile esterna, che porta a un panorama meraviglioso nelle ore del tramonto.
- le opere di arte moderna e contemporanea, che creano un sorprendente distacco con quanto visto nel pomeriggio, che però è anche un'unica tensione, nel nome del genio. E che insieme ti dicono che tu sei figlio di tutta quella roba lì, dalla necessità dei babilonesi di scolpire dei e adorarli per la paura di vivere e di morire, allo sforzo doloroso del Novecento di esprimere per altre vie il proprio disagio esistenziale e quello di tutta l'umanità. 


 Per chi fosse interessato, un reportage fotografico di ogni giorno di questo viaggio è tra le storie in evidenza del mio profilo Instagram

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